Non sempre le passioni riescono ad avere libero sfogo, ad uscire fuori, a manifestarsi. E quando questo avviene, non è sempre facile esprimere tutto l’amore che si nutre per quella persona o per quella cosa.
Quella di Stefano Fantini per la fotografia è sicuramente una grande passione, e come tale, una forma d’amore che si rivela a pieno attraverso immagini che parlano delle cose che lui ama.
Immagini che tradiscono sensibilità e al tempo stesso grande ironia, gusto per la bellezza e l’eleganza. Immagini che mostrano, soprattutto, una istintiva capacità di cogliere particolari di oggetti, cose e persone, che normalmente sfuggono.
— Letizia Galli
…è una resistenza muta, davanti a una città che sprofonda nei suoi volgari vuoti di memoria, nel suo ostinato perpetrare certe orribili “leggerezze”, così figlie di questa nazione, continuamente propensa a rovinarsi con le proprie mani.tratto da Anèys, la città rovesciata di Alessandro Pagni
Uno che sussurra e non urla mai.tratto da La Camera Chiara 5/2014 de La Bottega dell'Immagine Siena
Non sempre i fotografi amano dare un titolo alle loro creazioni. Ed è giusto così̀, per loro parlano le immagini. Un fotografo, forse anche più di un altro artista, di un pittore o di uno scultore, si esprime attraverso ciò che il proprio obiettivo coglie, guidato dalle sensazioni, dalla sensibilità, dal momento, dalle capacità tecniche di chi, su quell’obiettivo, posa l’occhio.
Per un’attitudine professionale, che viene da una passione intima e profonda, sono attratta da tutto ciò che è rappresentazione figurativa così come, allo stesso modo, mi attraggono le parole e il loro uso, sia scritto che parlato.
Per questo motivo non posso fare a meno di mettere insieme le immagini con le parole. Così come non posso fare a meno, se ho davanti una qualunque espressione d’arte, di sezionarla, scavarla, scoprirla, fino quasi a profanarla.
Ed è ancora per questo motivo che, quando ho visto le foto che Stefano Fantini aveva scelto, il primo istinto è stato quello di dargli un titolo. Praticamente le ho fatte subito mie, cercando di esprimere con due parole per ognuna, le sensazioni immediate, o più pensate, che mi comunicavano.
Ho proposto i miei titoli all’autore. Penso gli siano anche piaciuti, ne abbiamo parlato, discusso, ma poi è andata a finire che, giustamente, e come si può vedere, queste foto non hanno titoli ma numeri.
E va bene così. A pensarci bene il titolo di un’opera in qualche modo, anche se non necessariamente, la interpreta, la svela, ne guida la comprensione, ma non è detto che sia quello che vuole il suo autore.
E questo è sicuramente il nostro caso.
Ora però se osserviamo le fotografie non possiamo non pensare a quanto in queste immagini Fantini abbia voluto giocare sui contrasti, con una dualità evidentemente a lui congeniale, accostando in un unico scatto pensieri, cose o oggetti che, apparentemente, non hanno niente a che vedere fra se. Contrasti, o accostamenti, secondo come li si voglia considerare, davvero inediti si badi bene.
Cosa ci può mai essere infatti di comune tra dei suggestivi profili d’ombra e un tombino, oggetto assolutamente povero e materiale, messi insieme nel riquadro di una immagine, inusuale quanto poetica e astratta. Su questa via il gioco dei contrasti si acuisce nella dicotomia tra il rigore delle geometrie di uno skyline tutto senese, con il cielo che disegna irregolari ma nette forme tra i tetti dei palazzi e quanto di più evanescente, impalpabile e incorporeeo ci può essere in un grumo di nuvole che scompare, cambia forma o si dissolve al primo colpo di vento.
E più complesso e interessante, ancora guidato dall’inflessibilità delle ombre che partiscono il campo visivo, si fa il nostro esercizio quando interviene sulle architetture antiche, anzi meglio su certi dettagli. Rifiniture, che escono prepotenti dalle linee d’ombra. Partiture amate e note, con le strisce bianche e nere del Duomo che si corrispondono con gli archi a sesto acuto della facciata del Santa Maria della Scala.
Fuori da questi schemi, è l’ultima immagine, leggermente inquietante, che Fantini ci propone. Contorni frastagliati, ombre incombenti sulla luce con un’unica via di uscita, il piccolo foro centrale. Ancora interrogativi contrastanti. Che sia un agguato? Preferiamo spiare dal piccolo foro, senza essere visti.
— Letizia Galli
Il "Giardino segreto" è un vecchio film, tratto da un libro. Racconta la storia di un giardino, nascosto da un muro e dimenticato da tutti. Tre bambini lo scoprono, avvolgendolo di una patina magica, lo fanno rivivere e fiorire di nuovo.
Anche quello dove nascono e muoiono i fiori di Stefano Fantini è un "giardino segreto".
Un giardino delle meraviglie dove forme e colori si astraggono, si dissolvono, assumono altre sembianze, altre anime.
È un gioco di travestimenti, di mimetizzazioni, che stimolano il sogno e la fantasia.
I petali di una rosa rossa giocano a sembrare un lussureggiante ritaglio di velluto carminio, accarezzato da leggere gocce di rugiada. E noi ci sentiamo avvolti in questo tessuto morbido e seducente. Oppure stimolano altri sensi, forse sono un freschissimo gelato di lamponi?
La rosa bianca è più pudica, per definizione. I suoi petali si travestono da montagna innevata, così come la peonia da farfalla o una semplice, e un po’ disastrata corteccia secca, si nobilita trasformandosi in una insidiosa ed esotica lucertola.
Visto, basta un attimo e l’immaginazione vola... ed erano solo fiori.
Non sapremo mai cosa pensava l’autore di queste bellissime macro mentre penetrava e faceva suoi, trasformandoli, i fiori, le cortecce e le foglie del suo "giardino segreto". Perché non ce lo dirà mai.
Però ce le regala, solleticando il tatto, la vista, gli odori, perfino il gusto, se ci piace di più.
E allora godiamoci questa esaltazione dei sensi, liberiamo la fantasia e sogniamo.
— Letizia Galli